Comunicare la malattia in famiglia: un cammino di dialogo e cura condivisa

4 min lettura L'esperto risponde A cura di Martina Morandi Ultimo aggiornamento:
Comunicare la malattia in famiglia: un cammino di dialogo e cura condivisa

Quando la malattia fa capolinea in famiglia, non è facile condividerla. Paure, silenzi e sensi di colpa si intrecciano, ma la verità può essere una protezione. Ne parla la dottoressa Anna Rita Adduci, psicologa e psicoterapeuta specialista in psiconcologia.

Parlare di malattia oncologica in famiglia non è mai semplice. Le parole sembrano troppo grandi, o al contrario troppo piccole per contenere paure e speranze. Quando un genitore riceve una diagnosi di tumore, il primo pensiero corre spesso ai figli: dirlo o non dirlo? Come? Quando? Bambini e adolescenti hanno bisogni diversi, e il rischio di fare o dire la cosa sbagliata sembra enorme. Così, tra il desiderio di proteggere e il timore di ferire, molti genitori preferiscono il silenzio. Ma la psiconcologia ci ricorda che la verità, detta con i giusti modi e tempi, può essere la forma più autentica di protezione.

Per approfondire questo tema così delicato abbiamo incontrato Anna Rita Adduci, psicologa e psicoterapeuta specialista in psiconcologia, che collabora con la piattaforma di psiconcologia online di LILT Parliamone qui.

Dottoressa, quando un genitore riceve una diagnosi di tumore, come si parla della malattia ai figli?

Innanzitutto, il genitore, prima ancora di condividere la diagnosi con i figli, ha bisogno di elaborare, accogliere, accettare la condizione di malattia ed essere in grado di parlarne in maniera rassicurante in funzione al bisogno del nucleo famigliare in quel momento. Sicuramente, sappiamo che la verità rispetto alla malattia ha un effetto protettivo sullo sviluppo psicologico del figlio, sia bambino che adolescente. Ma è importante fare una distinzione tra le due fasce di età: i bambini hanno maggior necessità di essere aiutati a comprendere la malattia, il suo sviluppo e gli effetti collaterali delle terapie, gli adolescenti, invece, necessitano di essere aiutati a vedere nel genitore ammalato, un punto di riferimento solido nella loro delicata fase di costruzione identitaria.

Perché i genitori fanno fatica a dirlo?

Non sempre il genitore che riceve una diagnosi di malattia oncologica è pronto a comunicarla ai figli, anche nelle situazioni in cui la malattia è curabile e gestibile. I motivi di questa difficoltà possono essere diversi. Spesso il genitore razionalizza e si nasconde dietro alla precoce età dei bambini, pensando che non possano capire perché ancora troppo piccoli e preferiscono il silenzio. Oppure, può subentrare un atteggiamento di iper-protezionismo, fondato sull’idea di voler proteggere i figli dal dolore e dalle preoccupazioni, omettendo più o meno la verità.

Una volta smantellati questi pensieri disfunzionali, è importante, soprattutto con i bambini, condividere con loro il percorso oncologico per sviluppare un senso di padronanza e di controllo che costituiscono poi una risorsa importante nella vita futura.

Ci sono delle “regole” che sarebbe meglio seguire nella comunicazione?

Non esistono regole universali; ogni famiglia e persona ha una storia unica. L’intervento deve essere personalizzato in base all’età e ai bisogni dei figli, e alla complessità della situazione familiare. In linea di massima, la psiconcologia raccomanda una comunicazione sincera tra genitori e figli rispetto alla tematica della malattia. Ma è importante sottolineare che, se il paziente non si sente di condividere, non ha motivo di colpevolizzarsi di questo. In questo caso, però, può essere utile valutare la possibilità di chiedere aiuto a un professionista, per trovare insieme le modalità più adeguate sia per il paziente che per il contesto familiare.

E quando è un figlio piccolo a ricevere una diagnosi di tumore?

Il bambino reagisce alla diagnosi, e successivamente alla condizione di malattia, all’ospedalizzazione e alle terapie, sviluppando meccanismi di adattamento o, al contrario, di difficoltà. Questo può dipendere da diversi fattori come: l’età del bambino, il suo temperamento, la condizione di malattia, il tipo di trattamenti, la vicinanza ai centri oncologici di riferimento, quindi tutta una serie di fattori su cui non possiamo incidere. Quello che possiamo fare, invece, è rendere il bambino partecipe e gradualmente consapevole a quello che sta vivendo, con le adeguate modalità. È importante, quindi, che i genitori lo coinvolgano nel percorso terapeutico, affinché assuma un ruolo attivo nella gestione della malattia e contrasti il senso di impotenza, anche per contenere future problematiche psicologiche, spesso di tipo ansioso e di autostima.

Perché i fratelli dei bambini malati sono spesso definiti “i figli dimenticati”?

I fratelli, ovvero i “siblings”, in letteratura vengono definiti i “forgotten children” perché sono spesso dimenticati, sia dalla famiglia che dal sistema sanitario/oncologico, in quanto le risorse sono concentrate sul figlio malato. Va sottolineato che è un meccanismo fisiologico, non patologico, per i genitori concentrarsi sul figlio “in pericolo”, anche se può generare sensi di colpa. I siblings, specie se piccoli, possono sviluppare problemi psicologici e comportamentali, mentre i più grandi spesso assumono un atteggiamento di iper-protezionismo nei confronti del fratello malato e di iper-adattamento alla situazione, che a sua volta deve essere attenzionato. Per questo, è fondamentale coinvolgerli nella gestione e nella condivisione della malattia.

In che modo lo psiconcologo può essere di supporto alla famiglia?

Lo psiconcologo può facilitare una condivisione intra-familiare del percorso oncologico e aiutare la famiglia a individuare delle strategie di comunicazione adatte all’età e ai bisogni di quel nucleo familiare. Ad esempio, con i bambini più piccoli attraverso l’uso di metafore, del gioco, del disegno. È importante che i bambini comprendano a pieno la malattia e ciò che essa comporta, anche per contenere le idee di colpelvolizzazione rispetto alla malattia, che spesso i bambini sviluppano.

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Martina Morandi

Biologa e divulgatrice scientifica. Dopo la laurea e il dottorato di ricerca, ha conseguito un master in Comunicazione della Scienza e ha scelto di dedicarsi alla divulgazione scientifica. Si occupa principalmente di salute e prevenzione oncologica, con l’obiettivo di rendere la scienza chiara e accessibile a tutti.

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