Oltre la cura del corpo: il ruolo dello psiconcologo

4 min lettura L'esperto risponde A cura di Cinzia Testa Ultimo aggiornamento:
Oltre la cura del corpo: il ruolo dello psiconcologo

Diana Sala ci guida alla scoperta della psiconcologia, una disciplina specialistica che, a differenza della psicologia tradizionale, offre un supporto mirato e integrato per affrontare gli aspetti emotivi e traumatici della malattia, dalla diagnosi al fine vita, includendo anche familiari e caregiver.

Al Memorial Sloan Ketterig di New York, il noto Centro oncologico internazionale, lo psiconcologo è presente insieme all’oncologo medico a ogni colloquio, fin dall’inizio, per il benessere psicologico della persona.

In Italia non è ancora così, ma è un obiettivo da raggiungere. La Psiconcologia è basilare in ogni fase del percorso di cura e anche dopo. È grazie al suo aiuto, molte volte, se è possibile raggiungere la capacità di adattamento e di autogestione di fronte al tumore, arrivare a quello stato di resilienza che è necessario per superare la malattia.

Per saperne di più sulla figura dello psiconcologo, ne parliamo con Diana Sala, psicoterapeuta e psicooncologa e vicecoordinatrice della piattaforma di psiconcologia online di LILT.

Per cominciare, qual è la differenza tra uno psicologo e uno psiconcologo?

La differenza principale sta nella formazione. Lo psiconcologo ha una preparazione specifica legata alle fasi della malattia oncologica, nonché alle urgenze ed emergenze emotive che può vivere un paziente oncologico o il suo caregiver. C’è una maggiore attenzione agli aspetti traumatici legati alla diagnosi, all’accompagnamento durante la malattia e, in molti casi, al tema del lutto reale come nel fine vita, o simbolico, legato alla diagnosi oncologica. Lo psiconcologo, inoltre, è formato per riconoscere segnali precoci di disagio psicologico e intervenire tempestivamente con strumenti mirati, spesso anche brevi e focalizzati, pensati per chi si trova a vivere un’esperienza traumatica in un contesto fortemente medicalizzato.

In che modo lavora uno psiconcologo rispetto a uno psicoterapeuta “tradizionale”?

Il lavoro dello psiconcologo si caratterizza spesso per una rete di collaborazione più ampia. Si lavora a stretto contatto con l’oncologo, ma anche con altre figure sanitarie come nutrizionisti, assistenti sociali, fisioterapisti. Inoltre, si attivano servizi come i gruppi di auto aiuto o attività sportive compatibili con la malattia. È un lavoro multidisciplinare e integrato, che ruota attorno ai bisogni complessi del paziente oncologico. Rispetto a una psicoterapia tradizionale, può trattarsi di un intervento più dinamico e adattivo, anche molto pratico, pensato per contenere l’ansia e favorire la qualità della vita nella quotidianità del percorso di cura

Esiste un momento ideale per iniziare un percorso psicologico in oncologia?

Dipende molto dalle esigenze del paziente e dalle sue strategie di coping (N.d.R: meccanismi psicologi adattivi messi in atto da un individuo per ridurre lo stress dovuto a problemi emotivi). Alcuni iniziano subito, altri sentono il bisogno di un supporto più avanti. Per esperienza, il momento della diagnosi è una fase molto delicata: sapere fin da subito che esiste un supporto può essere di grande aiuto. Ci sono poi altre fasi critiche: l’inizio delle terapie, eventuali ricadute, interventi chirurgici. Alcuni pazienti inoltre vivono un contraccolpo psicologico alla fine del percorso di cura, quando cala la tensione e affiorano emozioni rimaste in sospeso. Ciò che aiuta è la possibilità di normalizzare queste reazioni.

E per quanto riguarda i caregiver?

Il contraccolpo emotivo è spesso più forte nei caregiver. Durante la malattia sono chiamati a “tenere botta”, ma quando le cure terminano, o si entra nella fase finale, si lasciano travolgere da emozioni che fino ad allora avevano messo da parte. Anche per loro sarebbe utile un percorso preventivo, non solo reattivo. Spesso i caregiver sviluppano un senso di colpa se sentono il bisogno di prendersi uno spazio per sé, ma è proprio il prendersi cura di sé che li rende capaci di essere di sostegno per l’altro nel lungo periodo.

Come cambia l’approccio nel caso in cui il paziente sia un bambino o quando un bambino è figlio di un paziente oncologico?

In entrambi i casi, il mio invito è sempre alla trasparenza e alla comunicazione chiara, ovviamente adeguata all’età. Se il bambino non riceve risposte, tende a costruirsele da solo, a volte con fantasie più spaventose della realtà. La chiarezza comunicativa è fondamentale sia se il bambino è il paziente, sia se è il figlio di un paziente.

Quali strumenti aiutano nella comunicazione?

Sono molto utili i materiali cartacei, come gli albi illustrati o i fumetti sulla malattia. Le immagini parlano tanto quanto le parole e spesso aiutano a elaborare pensieri ed emozioni. Possono facilitare riflessioni profonde in modo semplice e accessibile. Anche il gioco simbolico o tecniche di narrazione possono aiutare.

Cinzia Testa

Giornalista scientifica dal 1992, specializzata in comunicazione della salute con particolare attenzione all'oncologia. Esperienza pluriennale in campagne informative e divulgazione scientifica. Vincitrice del premio Giovanni Maria Pace nel 2019 per il giornalismo in ambito oncologico.

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