Tumori pediatrici: dai sintomi alla cura

Tumori pediatrici: dai sintomi alla cura

Ripercorriamo con Maura Massimino il lungo percorso che accompagna i bambini malati di tumore dalla diagnosi alla terapia.

Solo in Italia, sono circa 1.500 nella fascia d’età tra 0 e 14 anni e 900 tra i 15 e 18 anni, i bambini e gli adolescenti che ogni anno si ammalano di un tumore, cioè di un linfoma oppure di un tumore solido, o di leucemia. Ma come si arriva alla diagnosi? E quali sono le problematiche che ci sono ancora oggi? Lo abbiamo chiesto a Maura Massimino, Direttore della Struttura Complessa Pediatria Oncologica dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano.

Dottoressa Massimino, come si arriva alla diagnosi?

Il più delle volte il bambino o l’adolescente giungono a noi attraverso il pronto soccorso. I disturbi non sono quasi mai ben definiti e il ricorso al pronto soccorso diventa inevitabile quando la febbre si protrae nonostante le cure, oppure c’è un mal di testa persistente, o ancora, un dolore a un braccio o a una gamba che si protrae da troppo tempo. Questo ritardo diagnostico quasi sempre non turba la prognosi, ma di certo è una sofferenza che coinvolge tutta la famiglia.

Come avviene la presa in carico?

Come dicevo prima, arrivano da noi spesso con una diagnosi già completa, perché condividiamo il percorso fin da subito. Mi spiego. Se il dolore all’arto fa sospettare un sarcoma e il bambino oppure l’adolescente, è ricoverato in una struttura ortopedica, aspettiamo che venga effettuata la biopsia e poi, in caso di diagnosi positiva, lo accogliamo nel nostro reparto. Diciamo che attorno al paziente inizia fin da subito ad agire un team multidisciplinare, ancora prima di conoscerlo.

Di solito quando si entra in ospedale viene compilata una scheda: succede anche per i vostri pazienti?

È più ampia. Come per gli adulti, c’è una parte di anamnesi che comprende anche domande relative a casi precedenti in famiglia, com’è stata la gravidanza, se c’è stato o meno l’allattamento al seno. A queste informazioni, se ne aggiungono altre che riguardano la sfera sociale ed affettiva, come i rapporti con gli altri bambini, la scuola, lo sport. Sono notizie importanti, che ci aiutano soprattutto durante i periodi di ricovero a far sì che si creino con l’équipe e tra i pazienti stessi quei rapporti di fiducia, di collaborazione e di affetto che rappresentano una sferzata di energia durante le terapie.


C’è anche un supporto psicologico?

Certamente, sono psicologi clinici che seguono genitori e bambini. Sono figure diverse, divise per fasce d’età, con specializzazioni differenti. Sono importanti: ricordiamoci sempre che noi non abbiamo un paziente ma almeno tre, il malato e i suoi genitori.

Non abbiamo parlato del pediatra e del medico di famiglia, qual è il loro ruolo?

Spesso inesistente e questa è la grande spina del fianco. Raramente riceviamo la telefonata del medico curante durante il ricovero del loro assistito ed è altrettanto raro che seguano il paziente dopo la dimissione dall’ospedale. E così, continuiamo a essere noi le loro figure di riferimento, per le vaccinazioni, se si ammalano di Covid e persino quando i genitori hanno dubbi, come l’acquisto o meno di un animale da compagnia. C’è un po’ la sensazione che il paziente e la sua malattia vengano scaricati allo specialista. Eppure sarebbe un’opportunità per imparare che esistono le malattie oncologiche. Se calcoliamo che il pediatra di famiglia vede circa 5 pazienti in tutta la sua carriera e che quei 5 vengano così poco considerati, mi dispiace.

Qual è il suo appello?

È importante che si sappia sempre di più che esistono anche i pazienti oncologici pediatrici. E potenziare le informazioni sulle reti oncologiche dedicate. È necessaria anche una maggiore presenza da parte del medico di famiglia, perché come dicevo prima, quando si ammalano questi pazienti diventano inesistenti. E di tumori pediatrici bisogna parlarne nei corsi universitari, durante la specializzazione, cosa che ad oggi avviene ancora in maniera molto limitata.


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