Cosa insegna Michela Murgia? Risponde la psicologa

Cosa insegna Michela Murgia? Risponde la psicologa

L’outing di Michela Murgia sul suo tumore al quarto stadio apre importanti riflessioni sul fine vita. La psicologa Claudia Borreani ci aiuta a capire l’importanza di lasciarsi andare verso una prospettiva di vita che si chiude.

La notizia è nota: all’incirca un paio di mesi fa, la scrittrice Michela Murgia nel corso di un’intervista rende pubblica la sua malattia: un tumore al quarto stadio con metastasi alle ossa, ai polmoni e al cervello. Da lì, la sua condivisione sui social e nel corso di alcune apparizioni pubbliche, di alcune importanti riflessioni sulla vita, sul tempo, sulla famiglia. Racconti, i suoi, che inevitabilmente hanno provocato un vero e proprio tzunami e che hanno portato in molti a prendere spunto dalle dichiarazioni della scrittrice per pensare alle ripercussioni su sé stessi e sulla propria vita di una diagnosi come la sua.

Di questo e di altro abbiamo parlato con Claudia Borreani, Responsabile Struttura semplice dipartimentale Psicologia Clinica dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano.


Come mai ciò che ha dichiarato la Murgia ha lasciato il segno?

Non parla di malattia, ma di una prospettiva di vita che si chiude, mentre in genere le testimonianze riguardano i percorsi di cura, la fiducia, la speranza. È la visione realistica di una persona consapevole della gravità di una malattia che presumibilmente accorcerà la sua prospettiva di vita. Sottolineo “presumibilmente”, perché l’avvento dei nuovi farmaci oncologici sta modificando la storia naturale della malattia, tanto che sono sempre di più le persone che oggi convivono con una forma metastatica.

Certo è che con lei è iniziato qualcosa di nuovo, un po’ com’è accaduto una trentina di anni fa nell’ambito della diagnosi. Pensiamo ad esempio alla campionessa di tennis Lea Pericoli quando, forte della sua diagnosi precoce, incentivava le altre donne a sottoporsi ai controlli per la salute del seno.

Si sta aprendo una nuova era, ma quanto è difficile parlarne?

Tanto. È difficile arrivare alla consapevolezza di avere un tempo limitato con la giusta lucidità, al fine di affrontare questo periodo in modo razionale. Gli studi e la pratica di tutti i giorni ci dimostrano che per la maggior parte delle persone è una consapevolezza difficile da raggiungere anche razionalmente.

La Murgia ha fatto evidentemente un lavoro importante su sé stessa, ma non da oggi, è un percorso che probabilmente ha intrapreso da anni e che le ha garantito una “struttura” adeguata. È così che è possibile parlare di ciò che sta accadendo, prendere delle decisioni che danno un valore alla percezione della vita, disporre dei propri beni, mettere ordine negli elementi che compongono la propria vita per rendere il finale armonico, pianificare le cose che si ritengono importanti, salutare le persone ritenute più care. Questo, razionalmente. Rimane comunque la parte emotiva che sfugge al pensiero, confrontarsi con l’idea del fine vita è psicologicamente complesso, si è spaventati, lasciarsi andare verso qualcosa che è sconosciuto fa paura.

Ci sono dei suggerimenti che aiutano?

Si può controllare ciò che accade e quindi ad esempio decidere anche, quando sarà il momento, di avere la sedazione, di avere un momento in cui riunire le persone care, di dire o fare qualcosa che non si è mai fatto e che si ritiene importante. Sono azioni che controllano il vuoto che si ha davanti a sé, riempiendolo di significati. Si può quindi arrivare a vivere un periodo denso di persone, di emozioni, di vicinanza, è un modo per farci vedere un’altra parte della malattia. Questo non significa abbandonare le terapie, attenzione, come ho detto e ribadisco, ci sono farmaci innovativi che stanno modificando la vita. Significa invece investire sulla speranza, perché è umano farlo, ma intanto, mettere il focus anche su altre questioni. Può spaventare questa modalità di approccio, culturalmente non siamo abituati a guardare in faccia la morte, anche se si sta affrontando.


Aiutano la preghiera, la spiritualità?

Sì, se hanno fatto parte di un percorso di vita, al di là di una religione specifica. La fede, la spiritualità, sono un riferimento importante, che associo al discorso che ho fatti prima relativo alla consapevolezza. Chi ha affrontato la vita con spiritualità, e questo percorso ha comportato una crescita, una modalità di stare al mondo, ha una risorsa importante da cui attingere in un momento così delicato.

Se invece l’approccio avviene durante la malattia, non è detto che sia altrettanto solido da poter rappresentare un aiuto. Con il mio team avevo condotto uno studio sul fine vita con interviste ai pazienti ed era emerso che chi pregava, lo faceva spesso alla ricerca del miracolo. Pregava invece con un approccio diverso chi aveva fede e trovava in questo modo una forza per affrontare il passaggio, senza illusioni.


Emozioni e razionalità possono essere in equilibrio?

Il nostro lavoro come psicologi consiste proprio nell’allineare il piano emotivo a quello razionale: se sono bilanciati, lo sono anche le intensità delle emozioni vissute. La rabbia è legittima e deve essere espressa e lo psicologo diventa lo spazio dove piangere, esprimersi, lasciarsi andare, cosa che non sempre è possibile. Sono sentimenti più che leciti che qualcuno deve accogliere senza esprimere giudizi.

La sofferenza deve essere ascoltata, condivisa, elaborata per portare a un risultato, altrimenti è un susseguirsi di scarichi di tensione. La parte razionale accetta, quella emotiva è un mix di rabbia e di paura. La consapevolezza emerge dall’equilibrio tra questi due fattori, se si riescono ad allineare, è possibile affrontare anche i momenti difficili.


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