Studi clinici: un grande lavoro di squadra

Studi clinici: un grande lavoro di squadra

Ha appena preso il via una campagna di sensibilizzazione sull’importanza della ricerca in oncologia. E ci sta. È grazie alla ricerca infatti che è possibile delineare il profilo di un farmaco innovativo e far sì che possa diventare una terapia mirata, da destinare al paziente “giusto”. Con risultati innegabili: più guarigioni, una maggiore sopravvivenza, una migliore qualità di vita. Ma c’è un problema. A oggi, in Italia l’aderenza agli studi clinici è ancora bassa, con percentuali di adesione che si aggirano attorno al 7%. È poco: dovrebbe essere almeno il 20-25%. Da qui, la campagna “Lo sai quanto è importante?” promossa dalla FICOG, Federation of Italian Cooperative Oncology Groups, insieme ad AIOM, Associazione Italiana di Oncologia Medica, che comprende anche un opuscolo scaricabile qui.

Ne parliamo con Carmine Pinto, Presidente della Federazione, che riunisce ricercatori e centri oncologici, allo scopo di sviluppare e incrementare la ricerca.

Dottor Pinto, a chi è rivolta questa Campagna?

A tutti. È indispensabile migliorare le conoscenze sulla ricerca, sulla sua importanza, sul ruolo che ha rivestito in tutti questi anni nelle strategie di controllo e di cura dei tumori, e su quanto ancora c’è da fare. Senza la ricerca non si va da nessuna parte. Inoltre, per poter sviluppare uno studio clinico è necessaria la partecipazione in prima persona di pazienti che si offrono come volontari.

La Campagna serve anche a scardinare un preconcetto che si sta lentamente dissolvendo, ma che rimarrà vivo fino a quando ci saranno vuoti nella conoscenza. Vale a dire, la sensazione di sentirsi cavie. Ma non è così. Partecipare a un lavoro scientifico significa intanto, avere accesso, anche anni prima dell’immissione in commercio, a un nuovo farmaco innovativo. In più, è un atto di grande generosità nei confronti del prossimo. Si diventa parte attiva di un progetto, fianco a fianco coi ricercatori, per la condivisione di tutto ciò che riguarda il principio attivo che si sta assumendo, compresi effetti collaterali e strategie per alleviarne l’impatto, con un fine ultimo molto importante: permettere ad altri pazienti con la stessa malattia neoplastica di avere disponibile in futuro la stessa cura.

Da un sondaggio online che avete condotto è emerso che l’81% degli intervistati è favorevole alla ricerca indipendente. Cosa significa?

È quella parte della ricerca che viene finanziata da istituzioni pubbliche o private di ricerca, senza fini di lucro. Le aziende farmaceutiche non vengono escluse, intendiamoci, ma il loro supporto economico deve avvenire in percentuale minore rispetto al contributo delle istituzioni. Si tratta in sostanza della ricerca cosiddetta non profit, ma per essere tale, il progetto deve rispondere a determinati requisiti stabiliti dal Ministero della Salute. La quintessenza della ricerca indipendente è quella di non rispondere direttamente alle regole del mercato.

Per fare qualche esempio, deve valutare in maniera autonoma la potenzialità dei nuovi farmaci e dimostrare l’eventuale valore terapeutico aggiuntivo di molecole già in commercio. Il fine è ampliare il numero di pazienti che possono beneficiarne, individuare le caratteristiche cliniche dei pazienti e quelle biologiche dei tumori, per una personalizzazione delle terapie. È anche necessario approfondire le peculiarità dei diversi farmaci affinché sia possibile un piano terapeutico ad hoc in sequenza, per garantire opzioni di cura in caso di fallimenti.

Negli Stati Uniti gli studi clinici vengono pubblicizzati da manifesti posti ovunque, in luoghi pubblici. Da noi questo è vietato. Cosa può cambiare con questa campagna?

Oggi tra paziente e medico c’è più dialogo rispetto a un tempo e il paziente vuole essere coinvolto nel piano di trattamento, capire a cosa va incontro quando inizia una terapia. Questo deve avvenire sempre di più anche nell’ambito della ricerca clinica e nel caso di una forma tumorale “difficile”. Deve essere naturale la domanda “c’è uno studio che può essere indicato per il mio caso?”. E dall’altra, l’oncologo deve essere sempre più aggiornato sulla ricerca in corso sul territorio nazionale, con l’obiettivo di proporne la partecipazione al suo paziente. Senza dimenticare le Associazioni pazienti, che hanno un ruolo importante anche in questo ambito.

È un grande lavoro di squadra, con l’obiettivo ultimo il benessere dei pazienti di oggi e di domani. Certo, è necessario che il paziente, così come oggi sa cosa sono i farmaci biologici e l’immunoterapia, arricchisca la sua cultura nell’ambito della ricerca clinica.

Possiamo dare qualche suggerimento?

Vale sempre il consiglio di verificare la natura dello studio. È quasi sempre “controllato”, quando ci sono due gruppi di volontari. Uno riceve il farmaco e l’altro, chiamato gruppo di controllo, riceve la terapia standard, cioè quella prescritta solitamente, oppure il placebo, una sostanza apparentemente simile a quella in sperimentazione ma che non contiene alcun principio attivo. Inoltre, solitamente lo studio controllato è randomizzato, quando i partecipanti vengono assegnati in modo casuale a uno dei due gruppi, e talvolta è in doppio cieco quando nessuno sa, compresi i ricercatori, quale dei due gruppi assume la molecola in studio.

È bene poi sempre ricordare che il paziente che aderisce a uno studio clinico è tutelato dal Comitato Etico, cioè da un organismo indipendente che garantisce e tutela i diritti, la sicurezza e il benessere dei partecipanti allo studio clinico. Infine, ultimo ma non meno importante, gli studi clinici sono “alla luce del sole” e non prerogativa di pochi, altro tabù da demolire. Sul sito di AIOM c’è una sezione dedicata agli studi clinici attivi, utilizzabile sia dagli oncologi, sia dai pazienti, per un rapido accesso alle informazioni su tutte le sperimentazioni profit e non profit in corso, con schede dettagliate su ogni studio clinico, complete di informazioni sui centri italiani partecipanti e caratteristiche dello studio.


Altre L'esperto risponde